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Tutti i dischi anni ’70 delle Orme, dal peggiore al migliore

Meglio ‘Collage’, considerato il primo vero album prog italiano, il classico ‘Felona & Sorona’ amatissimo all’estero o il controverso ‘Uomo di pezza’? Ecco gli album del periodo migliore del gruppo di Aldo Tagliapietra, Toni Pagliuca e Michi Dei Rossi.

di Fabio Zuffanti                  8 Settembre 2024

 

Nell’Italia degli anni ’70 sfondare in classifica con un singolo è per una band “alternativa” un peccato mortale. Significa essersi venduti al sistema, far parte del circo della musica commerciale che non può in alcun modo interessare i giovani rivoluzionari. Nel 1972 Le Orme compiono il sacrilegio con Gioco di bimba, ballata semi-acustica che cela, con metafore tra il poetico e il gotico, una storia di violenza su una giovane. Nessuno, però, è interessato a leggere tra le righe, quel che conta è affermare che il trio veneto si è venduto.


Le polemiche esplodono e, proprio come avviene oggi sui social, si smorzano altrettanto velocemente e Le Orme vanno avanti con la loro storia che ha attraversato la rivoluzione psichedelica della seconda metà dei ’60 dando alle stampe uno dei dischi più apprezzati in quel genere, Ad Gloriam. Fiutata l’aria, a inizio ’70 la band ridotta a trio si lancia a inseguire le istanze progressive che giungono dall’Inghilterra pubblicando quel Collage che può definirsi il primo vero e compiuto album prog italiano.


Evidentemente ispirata alle proposte di trii quali Emerson, Lake & Palmer e soprattutto Quatermass, la musica delle Orme non è mai frutto di autoindulgenza. Il loro prog non è una gara a chi suona l’assolo più veloce, il trio preferisce concentrarsi sulla qualità delle canzoni. Lunghe o corte che siano, sono costruite con cura certosina dei dettagli. Pur ottimi musicisti, Aldo Tagliapietra (voce, basso, chitarra), Toni Pagliuca (tastiere) e Michi Dei Rossi (batteria) non sono in grado di toccare le vette virtuosistiche di Keith Emerson e dei suoi. Ovviano rivestendo i loro brani di atmosfere intense e melodiche e anche nelle furie strumentali non perdono mai il bandolo della matassa, ma tendono una mano all’ascoltatore per condurlo a esplorare i loro mondi senza fatica.


Nei testi Pagliuca volge gli occhi al sociale. Anche quando sembrano più favolistici, parlano sempre dell’essere umano, delle sue debolezze e delle sue aspirazioni. Il trio ha inoltre la particolarità di dare alle stampe album sempre diversi l’uno dall’altro, spingendosi a esplorare paesaggi sonori ad ampio raggio. Messe da parte le polemiche sul singolo, la formula ha successo perché nella musica delle Orme si intravedono grande onestà e purezza. Sono diversi da Banco e PFM, ma riescono lo stesso a entrare a far parte del terzetto delle meraviglie del rock italiano.


Col tempo arrivano le diatribe interne e gli abbandoni; diatribe mai placate fino ai giorni nostri, nei quali un indomito Michi Dei Rossi porta avanti con orgoglio la storica sigla. Come però spesso accade è nei ’70 che Le Orme hanno dato il meglio da tutti i punti di vista, per questo ci concentreremo sulla classifica di un pugno di dischi che in quel decennio (compreso l’anno 1980) hanno mostrato l’altra faccia del prog, quella meno roboante e più emozionale.


Verso la fine degli anni ’70 Le Orme cambiano totalmente pelle e da gruppo rock mutano in raffinato ensemble da camera. Messe da parte batterie e tastiere, i tre si dedicano a una proposta totalmente acustica in brani più stringati. A dar loro manforte è il chitarrista/violinista Germano Serafin che porta nuove idee in seno al gruppo. Le canzoni di Piccola rapsodia dell’ape sono luminose e delicate, con l’insetto a rappresentare l’universo femminile. Un disco affascinante, ma lontano dal prog del recente passato.


La fine del progressive rock a favore di stili musicali maggiormente impattanti sul pubblico a livello commerciale porta Le Orme alla svolta acustica. Piuttosto che sottomettersi a un mercato in rapida trasformazione la band preferisce ripiegarsi su se stessa, i componenti si mettono a studiare strumenti come il violoncello, il violino e tutta una serie di percussioni per offrire l’essenza classicheggiante del prog, tingendolo di echi folk/etnici. Florian ha canzoni leggiadre che tradiscono una vena polemica nei confronti dei cambiamenti in atto, vedi la trascinante Fine di un viaggio con la figura dylaniana di Mr. Tambourine Man simbolo di una musica pop in rapida e commerciale trasformazione.


Con il nuovo chitarrista Germano Serafin e seguendo le tracce già lasciate in Smogmagica, Le Orme alleggeriscono ancora il suono, avvicinandolo al pop-rock di classe. Si ascolti la canzone che titola l’album, toccante sonata per gruppo e quartetto d’archi (più flauto traverso) che fa della coinvolgente melodia il suo punto di forza. Il singolo estratto (Regina al Troubadour) si muoverà assai bene ma ancora meglio farà un brano non incluso nell’album, Canzone d’amore, che con il suo afflato prog-disco farà bella mostra di sé al Festivalbar 1976.


Registrato a Los Angeles e impreziosito dalla copertina di Paul Whitehead (già al lavoro con i Genesis), Smogmagica segna una sostanziale trasformazione nella proposta delle Orme. Stop alle cavalcate sinfoniche e via libera a un rock senza fronzoli. Ci sono cambiamenti anche nella line-up, col gruppo che accoglie il chitarrista Tolo Marton. Detto ciò, fanno la differenza come sempre le canzoni, fresche e spigliate come un soffio d’aria in una torrida estate. Tra queste Amico di ieri si farà ricordare a lungo.


Dopo i successi degli anni precedenti, Le Orme danno alle stampe un album bifronte. Da una parte Contrappunti ospita alcune tra le partiture più complesse mai realizzate dal gruppo (con l’essenziale aiuto del produttore Gian Piero Reverberi), vedi la title track che trae forza dal continuo incastro di melodie diversificate. Dall’altra offre brani più leggeri (nel senso migliore del termine) ma prog al punto giusto, non dimenticando le critiche: India mostra l’altra faccia del Paese mistico per eccellenza, meta ambita dagli hippy dell’epoca, contestando il suo appoggio alla costruzione di un’atomica; La fabbricante d’angeli si scaglia contro l’aborto clandestino; la leggiadra Maggio si sofferma sulle proteste operaie accusando la Chiesa di trascurare i valori sociali.


Nel ’77, proprio nel bel mezzo della rivoluzione punk, accade qualcosa di imprevisto. Quando sembravano votati a un suono più commerciale (e prima della svolta acustica), Le Orme si guardano indietro e offrono un pacchetto di canzoni prog, brani non particolarmente arzigogolati ma dotati della giusta carica sinfonica. La voglia di guardare ai successi passati si intuisce già dalla copertina che sfoggia un nuovo dipinto onirico di Walter Mac Mazzieri, con brani “magici” (Storia o leggenda e Tenerci per mano su tutti) che qua e là sfoggiano anche inedite tentazioni wave-elettroniche (Se io lavoro) che poi torneranno su più larga scala a inizio anni ’80 nell’album Venerdì.


Collage si pone come vero punto di svolta nell’Italia musicale dei primissimi anni ’70. Dopo alcuni tentativi (The Trip, i Giganti), Le Orme sono i primi a pubblicare un album prog perfettamente compiuto. Nel disco se sente l’influenza degli stili provenienti dall’Inghilterra, senza disdegnare un certo gusto melodico caro agli italiani. Il mix funziona alla grande, con cavalcate strumentali di impatto come Cemento armato (dove la lezione dei Quatermass si fa ben viva) alternate a un’idea di prog italiano fino al midollo: Sguardo verso il cielo, Era inverno, Morte di un fiore sono grandi brani di pop italiano traslati in prog con i massimi risultati. E il tutto senza disdegnare temi quali inquinamento, prostituzione, droga. Un disco realmente completo.


Nel 1973 Le Orme decidono di puntare in alto con un concept (e relativa suite a coprire le facciate) a tema fantascientifico: due pianeti che vivono uno nelle tenebre e uno nella luce, con tutta una serie di vicende collegate alle dualità positivo-negativo, bene-male. Alla fine si capirà che l’equilibrio tra i due poli non esiste e i due pianeti si distruggeranno a vicenda. Ciò che può sembrare un racconto di fantasia racchiude in sé metafore sulle disuguaglianze, metafore che i tre traslano nelle loro partiture più classicamente prog, con il trio Pagliuca-Tagliapietra-Dei Rossi a darci dentro tra leggiadre ballate folk e momenti space-bombastici.


Uomo di pezza irrompe nelle classifiche del 1972 sospinto dal singolo Gioco di bimba, melodia incantata a tempo di valzer nella quale il bassista/cantante Aldo Tagliapietra sembra narrare l’innocua favola di una bambina che si perde nella notte. In realtà i risvolti sono altri e a ben vedere scopriamo che si sta parlando di uno stupro messo in atto da un uomo senz’anima, un uomo – appunto – di pezza. Anche il resto dell’album è imperniato su una serie di giovani figure femminili alle prese con la paura del vivere, sospinto da musiche che appartengono al progressive più classicheggiante senza tralasciare atmosfere sospese e rarefatte, esatta trasposizione della copertina di Walter Mac Mazzieri, colma di figure oniriche e grottesche, quasi attori di un sogno fanciullesco. Uomo di pezza è un capolavoro delicato e impressionista, che tra le sue dolci pieghe cela l’incubo.

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